Casa di Cura roma Domus Santa Rita

Tutte le fasi della nostra esistenza meritano di essere guardate con occhi pieni di vita: ognuna di esse ha un suo vantaggio, ognuna ha la propria ragion d’essere, ognuna racchiude momenti ed opportunità nuove e irripetibili.
Per questa ragione, è importante ricordare che l’avanzare dell’età non significa necessariamente voltarsi indietro, verso il percorso che si è fatto, e vivere di ricordi e momenti che non potranno ripetersi, bensì continuare a guardarsi intorno, a godersi il viaggio, a vivere, forti della saggezza e della profondità d’animo che il tempo dona proprio per insegnarci a guardare la vita da un punto di vista sempre nuovo.
Gli ostacoli di un individuo che si affaccia all’anzianità sono certamente inerenti alla debolezza e la fragilità del corpo, un problema che troppo spesso conduce ad inattività, arrendevolezza e perdita di ogni proposito. Tuttavia, esistono altri fattori, forse più latenti ma di gran lunga più importanti, che sono la solitudine, l’incomprensione e l’inadeguatezza in certi contesti che non sono più quelli in cui si è vissuti.
Oggi, le case di riposo possono considerarsi una soluzione utilissima a questa problematica sociale, perché offrono agli anziani un contesto nuovo e sereno, fatto di persone che stanno vivendo medesime esperienze e con cui è possibile condividere pensieri, sensazioni, magari anche hobby o passioni in comune. Grazie a questi istituti, la vita non rischia di fermarsi tra le mura di casa ma si arricchisce di nuove conoscenze, di nuove sperimentazioni sociali, che spesso si scoprono essere la migliore cura da ogni acciacco dell’età.
Basti pensare a tutto quello che la generazione precedente ha fatto per quella attuale, o al fatto che gli anziani di oggi sono lo specchio del nostro futuro, per comprendere e apprezzare il ruolo che le case di cura hanno nell’ambito della società: che sia per loro un rifugio, o una casa, o un luogo di ritrovo, la casa di cura è il posto in cui gli anziani possono sentirsi tutelati, rispettati, accolti come parte di una comunità attiva.
In questo modo, gli anziani possono inserirsi nella collettività con uno spirito più sereno e possono davvero dare il loro importantissimo contributo ad una società che ha sempre bisogno della loro saggezza e della loro semplicità per ricordare, nella confusione del mondo moderno, quali sono i valori reali che non bisogna perdere di vista.

Ultrasuoni, possibili alleati contro l’Alzheimer

Sono i risultati di uno studio condotto all’Università di Queensland, Australia, che ci fa ben sperare per la scoperta di un nuovo alleato contro l’Alzheimer: gli ultrasuoni.
La ricerca, pubblicata sulla rivista Science Translational Medicine, ha dato spazio all’ipotesi che l’utilizzo focalizzato di ultrasuoni consentirebbe la distruzione delle placche amiloidi, causa principale dell’insorgere del morbo di Alzheimer.

Nella ricerca instancabile di una cura efficace per questa malattia degenerativa che, ad oggi, colpisce più di 40 milioni di persone al mondo, si è pensato agli ultrasuoni, cioè onde capaci di attraversare i tessuti senza danneggiarli. Esistono già numerose applicazioni degli ultrasuoni in fisioterapia, igiene dentale ed oncologia allo scopo di stimolare le difese immunitarie del sistema nervoso centrale.
I ricercatori hanno osservato come i fasci di ultrasuoni, opportunamente focalizzati, generino un aumento di temperatura tale da distruggere i depositi di Beta-amiloide.

Si è quindi passati alla sperimentazione sulle cavie, con cicli di ultrasuoni a bassa intensità e di breve durata, per un periodo che andava dalle 4 alle 7 settimane. I risultati sono stati spettacolari: dai test cognitivi, infatti, si è constatato un notevole miglioramento delle facoltà mentali da parte dei topi, mentre i test istologici hanno evidenziato un riduzione consistente delle placche amiloidi (75%!).

Si tratta insomma di ottime notizie, sul fronte della ricerca, che fanno ben sperare per la messa a punto di una terapia capace di contrastare in modo efficace il morbo di Alzheimer o persino, se si interviene a tempo debito, consentire un recupero parziale della memoria.

Demenza senile diagnosi

La demenza senile rappresenta una delle minacce più temute dell’ultimo secolo, in quanto colpisce una notevole fetta della popolazione over 65, una percentuale che, a giudicare dalle previsioni, è destinata ad aumentare esponenzialmente.

La ricerca, fortunatamente, sta dando dei segni positivi, e sarà forse possibile, in futuro, diagnosticare in maniera precoce la demenza senile, così da prevenire una complicanza o, meglio, il disturbo stesso. Ciò che ci fa ben sperare è una ricerca europea coordinata da ricercatori della III Clinica neurologica dell’Università di Firenze, che ha portato alla scoperta di un legame tra alcune alterazioni della sostanza bianca dei cervello e i primi segnali del disturbo, ovvero i vuoti di memoria, la mancanza d’equilibrio, la depressione, il rallentamento dei movimenti e così via. Si tratta di segnali che si presentano anche nel normale processo di invecchiamento, ma in forma più grave sono rintracciabili in 1/3 di essi e la ricerca ha appunto rilevato che tali alterazioni, riconscibili mediante apparecchi sofisticati di Risonanza Magnetica e Tac, sono causa di un aumento considerevole dei disturbi senili.
Per la prima volta, dunque, si sono riconosciuti i segni precoci della demenza che, si è calcolato, hanno un progresso graduale che può durare anche 20 anni prima che si manifestino chiaramente i sintomi del disturbo.
Dati i risultati, si può ipotizzare che le alterazioni celebrari siano causate da un mancato afflusso di sangue; è assodato che il problema si deve per il 60 % all’ipertensione, quindi è consigliabile prevenirla e curarla in maniera aggressiva, in attesa che la ricerca si concluda e porti risposte più esaustive.

Alzheimer La proteina che preserva le sinapsi neurali

Grazie all’osservazione degli effetti del letargo sugli animali, dei ricercatori finanziati dal Medical Research Council hanno rilevato la fondamentale attività di una proteina, nominata RMB3: andando in letargo, il cervello degli animali subisce delle modificazioni allo scopo di affrontare il freddo ed il lungo sonno che li aspetta, ed è la proteina RMB3 ad impedire la perdita delle connessioni neurali e a favorirne lo sviluppo in primavera.
Si è in seguito scoperto, da alcuni ricercatori dell’Università di Leicester e di Cambridge, che tale proteina si attiva in situazioni di shock termico e hanno approfondito lo studio e i meccanismi di funzionamento della RMB3.
L’esperimento è stato realizzato su due gruppi di topi, l’uno sano e l’altro con malattia di Alzheimer: dopo 45 minuti di ipotermia, al ripristino della temperatura fisiolgica, la proteina è entrata in funzione soltanto nei topi sani e non nei malati, determinando un mancato ripristino delle sinapsi al risveglio degli ultimi.
Si tratta di risultati importanti nel settore della ricerca per l’Alzheimer, ma c’è bisogno di sperimentare nuovi trattamenti meno rischiosi. Scopo dei ricercatori, infatti, è quello di comprendere pienamente i meccanismi scatenat dalla proteina RMB3, allo scopo di riprodurne gli effetti di rigenerazione neuronale per una futura applicazione alle condizioni neurodegenerative.

I BENEFICI DELLA CASA DI CURA

Invecchiare: sono molti coloro per cui questa parola è sinonimo di disturbi invalidanti, di solitudine, di incomprensione, sintomo di un periodo che non ha altro scopo se non quello di porre termine alla vita, alla libertà e all’autonomia. La maggior parte delle volte, chi ha una visione così negativa della vecchiaia è colui o colei che, con l’avanzare degli anni, avverte come difficoltosi anche i più semplici gesti quotidiani, o sente distanti le persone che lo/la circondano per diversi disturbi fisici o comportamentali che ne derivano ma anche per un divario generazionale che porta generalmente la società, più evoluta e moderna nelle idee e negli usi, a considerare gli anziani persone dalle opinioni ormai impraticabili.
Si tratta di una serie di concezioni che andrebbero corrette, in quanto la cosiddetta “terza età” ha molto da offrire alla comunità, ben più di quello che si crede.
L’età non è soltanto quella anagrafica ma anche quella che ci si sente dentro: non è detto, perciò, che un vecchio debba sentirsi tale solo perchè ha superato i 65 anni e quindi, secondo un pensiero fin troppo comune, debba e voglia smettere di fare quello che l’ha sempre appassionato, smettere di prendere decisioni per sè stesso, smettere di vivere; anzi, spesso è proprio l’atteggiamento altrui a inibire le persone anziane e a porle in una condizione auto-invalidante.
Questo tipo di approccio non è solo sbagliato, ma dannoso.
Non si tratta di farsene una colpa: molte delle persone che si prendono cura degli anziani non sono realmente preparati su come eseguire al meglio il proprio compito, e spesso cadono in comportamenti deleteri al benessere fisico ed emotivo del soggetto.
E’ proprio per questo che, oggi, in tutta Italia, esistono tante case di cura ben attrezzate e comprendenti un personale altamente professionale: tra queste c’è Domus S. Rita, situata nel comune di Ardea, a Roma, che offre una preparatissima assistenza in un ambiente accogliente e familiare.
Domus S. Rita si occupa della serenità degli anziani già partendo dalla prevenzione, promuovendo attività che stimolano il corpo e la mente e che, più generalmente, aiutano a contrastare gli effetti dei disturbi più comuni. Oltre alla questione fisica e psicologica, gli ospiti potranno riscoprire hobby, condividere pensieri e passioni con la comunità, sentire di avere ancora da vivere… e non c’è cura migliore per tutto quello che l’età avanzata comporta!
Le case di cura, come Domus S. Rita a Roma, hanno un ruolo molto importante in questo frangente, ma sono fondamentali anche e soprattutto i familiari, che devono imparare a vedere diversamente tale stato della vita, guardando soprattutto alla saggezza e ai valori non più comuni nella società odierna. Solo così si può comprendere la ricchezza di cui siamo partecipi, solo così le persone anziane diventano ciò che sono davvero: maestri di vita e di valori.
Guardare avanti va bene, ma è il passato ad insegnare come.

Aducanumab: il farmaco che apre nuove speranze per la cura dell’Alzheimer

Lascia ben sperare il nuovo farmaco, Aducanumab, presentato pochi giorni fa a Genova da un membro dell’Università di Melbourne ospitato al Congresso sulle malattie
degenerative dell’Associazione Autonoma Sin per le demenze (Sindem), presso Palazzo Ducale. Si è infatti osservato che, a seguito della somministrazione di tale
farmaco, il cervello viene “ripulito” dalla proteina beta-amiloide attraverso sostanze che si legano alla proteina patologica, con conseguente miglioramento delle
condizioni del malato.
Per fruire in maniera efficace di questo farmaco, tuttavia, è necessario iniziare le cure il prima possibile, riconoscendo abbastanza precocemente gli individui
destinati a sviluppare la malattia quando ancora non si presentano i sintomi. A tal proposito, oggi abbiamo due test, che consistono nella Pet con “ligandi” (composti
che riconosono la beta-amiloide) e l’esame del liquido cerebro-spinale: entrambi questi test possono aiutare molto nel prevedere i futuri casi di Alzheimer, fino a 15
-20 anni prima del presentarsi della malattia.
Grazie a questo farmaco, quindi, si può prevenire il depositarsi della beta amiloide e quindi ritardare l’esordio dell’Alzheimer, risultato importantissimo se si
considera che posticipare di dieci anni l’insorgenza della malattia significherebbe far crollare il numero di malati.
La ricerca è stata provata dalle immagini della Pet, ma c’è bisogno di ulteriori prove per garantire l’efficacia di questo e di altri nuovi farmaci che stanno man mano
portando a nuove speranze di cura.

ALZHEIMER: COME PREVEDERLO DA UN ESAME OTTICO

La notizia proviene dal Cedar Sinai di Los Angeles ed è stata pubblicata sul Journal of Speech, Language and Hearing Research, presentandosi come un’importante novità nell’ambito della diagnosi precoce: i ricercatori del noto istituto hanno infatti osservato che un esame della retina potrebbe predire lo sviluppo dell’Alzheimer e, allo scopo di dimostrare questa ipotesi, hanno messo a punto un particolare apparecchio che consente di individuare nella retina la presenza di frammenti riconducibili a placche di beta-amiloide, prima che si accumulino nel cervello. Si tratta di una tesi a cui lavorano anche dei ricercatori australiani, guidati dal prof. Christopher Rowe, che hanno ideato una procedura basata sull’osservazione del nervo ottico attraverso la PET (tomografia a positroni).
Oggi le placche di beta-amiloide sono individuabili solo in uno stato avanzato di neurodegenerazione e questo ci fa capire quanto questo studio sia importante: sarebbe, infatti, possibile trattare il paziente prima che questi subisca dei danni irreversibili.
Si lavora ad una ricerca simile anche nel caso del Parkinson, che concerne però le alterazioni della voce, e infatti l’Università di Haifa, in Israele, ha messo a punto un sistema compiuterizzato capace di rilevare i cambiamenti di articolazione dei suoni nel paziente.
Attualmente non si ha ancora la possibilità di prevedere l’Alzheimer, né tantomeno si ha la possibilità di agire, ma la scienza degli ultimi anni ha ottenuto degli importantissimi risultati e ha messo in campo teorie che, in un futuro prossimo, potrebbero trasformarsi in vere e proprie soluzioni per un morbo che tuttora tormenta una fetta sempre crescente della popolazione mondiale.

ALZHEIMER STATISTICHE E RICERCA

Il problema dell’Alzheimer è diventato, nel corso degli anni, sempre più presente, dal momento che sono gli stessi anziani ad essere in aumento, essendosi alzata l’età media: è quanto si legge dalle statistiche, che prevedono un’estensione notevole del problema in un ipotetico futuro: sembra infatti che la cifra di coloro che verranno colpiti da questa infida malattia nel 2030 subirà addirittura un raddoppiamento, mentre nel 2050 potrebbe arrivare a ben 135 milioni.
Sono dati allarmanti, che hanno reso l’opinione pubblica molto più sensibile al problema: lo scorso dicembre, a Londra, si è tenuto il primo summit dei paesi del G8 sulla demenza, mentre durante questo stesso marzo si è celebrata la settimana mondiale del cervello, dedicata alle malattie mentali degenerative.
Nonostante ciò, le ricerche epidemiologiche portano buone notizie: nonostante l’aumento degli anziani e quindi anche delle malattie che la terza età spesso porta con sé, l’incidenza sembra essersi comunque stabilizzato. Marco Trabucchi, presidente dell’Associazione italiana di psicogeriatria ed esperto di demenze ha commentato le statistiche affermando che, seppure le notizie siano confortanti, il problema è ancora presente a livello globale, soprattutto perchè il continuo fallimento delle sperimentazioni a favore di un blocco o almeno di un decorso della malattia hanno generato una diffusa sfiducia, quindi un crollo dell’interesse nei confronti del morbo.

Alzheimer nuovi farmaci e strategie di ricerca

La ricerca scientifica, nel suo continuo e instancabile lavoro, sta attualmente sviluppando dei nuovi e più efficaci trattamenti per il morbo di Alzheimer, che riguardano varie classi di composti, tra cui: gli antagonisti dei recettori muscarinici M1, gli antagonisti dei recettori nicotinici, gli anticorpi contro β-amiloide, agenti antinfiammatori, inibitori delle secretasi e composti che agiscono sulla proteina tau.
Andiamo ad analizzare nello specifico gli effetti sui quali si basano i nuovi farmaci:

Antagonisti dei recettori muscarinici di tipo M1 – Come ben sappiamo, i farmaci che attualmente sono utilizzati per il trattamento del morbo di Alzheimer comprendono inibitori dell’acetilcolinesterasi, che hanno però una notevole pecca: il funzionamento di tali inibitori, infatti, si basa sull’integrità delle strutture nervose, che la malattia contribuisce a degenerare progressivamente, rendendo quindi anche il farmaco sempre meno efficace.
Gli studi recenti hanno dimostrato che la stimolazione dei recettori muscarinici di tipo M1, evitando invece quelli di tipo M2, può portare alla riduzione dei livelli di β-amiloide, quindi agisce contro il progredire stesso della malattia, causato dall’accumulo del peptide.
I recettori muscarinici M1 sono coinvolti nella memoria a breve termine e si trovano nell’ippocampo e nella corteccia, le due aree in cui si manifesta il maggior deficit colinergico, causato dalla progressiva perdita di neuroni colinergici. Dunque, l’aumento della funzione colinergica è in grado di rallentare la produzione della malattia, riducendo l’accumulo di β-amiloide.

Farmaci antagonisti dei recettori nicotinici – E’ sempre la perdita dei neuroni colinergici a far pensare che i recettori nicotinici possano essere un bersaglio terapeutico, soprattutto gli antagonisti del tipo α7, che risulta essere il predominante nelle zone cerebrali dovo il calo colinergico si verifica. Sulla base di tali conclusioni, sono stati sintetizzati vari composti, e tutti hanno mostrato risultati discreti. In particolare, l’ ABT-107 ha generato miglioramenti di tipo cognitivo in scimmie e topi ed è recentemente stato testato anche aull’uomo, dimostrandosi tollerabile ed efficace.

Anticorpi contro β-amiloide – Attraverso l’immunizzazione passiva, si fa utilizzo degli anticorpi monoclonari anti β-amiloide, allo scopo di ridurne i livelli. Tra gli anticorpi sperimentati troviamo il bapineuzumab, che ha come bersaglio le placche amiloidi e che, sfortunatamente, ha generato in qualche caso degli effetti collaterali non del tutto lievi, e il solanezumab, ch è in grado di riconoscere alcune varianti della proteina β-amiloide e di legarsi alla β-amiloide solubile, riconosciuta dannosa già prima ancora della formazione delle placche; lievi gli effetti collaterali.

Inibitori delle y-secretasi – Il farmaco basato su questi inibitori, il begacestat, è addirittura in grado di inibire la scssione della proteina APP (Amyloid Precursor Protein), la cui degradazione enzimatica porta alla formazione di β-amiloide, fondamentale responsabile dell’Alzheimer. I risultati sono notevoli: su animali transgenici, il trattamento orale ha mostrato una riduzione nel cervello, nel plasma e nel liquido cerebrospinale dei livelli di β-amiloide, e inoltre, a livello cognitivo, è stata notata un’inversione dei deficits della memoria contestuale.

Diagnosi Alzheimer: arriva il test del rame

Uno studio italiano ha recentemente confermato che alte concentrazioni del metallo nel sangue possono associarsi ad un rischio triplicato di ammalarsi di malattie

degenerative quali l’Alzheimer. Da tale osservazione, gli esperti hanno dedotto che un semplice prelievo del sangue potrebbe dire molto circa l’insorgere della

malattia, in quanto aiuterebbe a capire se un moderato declino cognitivo è destinato a peggiorare e quindi a sfociare nel morbo.
I ricercatori dell’Ospedale Fatebenefratelli e dell’Università Cattolica di Roma hanno sviluppato un test capace di misurare le concentrazioni plasmatiche di rame libero nel sangue, parametro associato al rischio triplicato di ammalarsi di Alzheimer: l’esame, già disponibile presso il Policlinico A. Gemelli, è stato convalidato in un lavoro pubblicato recentemente sulla rivista Annals of Neurology, che ha riportato la sperimentazione su un gruppo di 141 anziani già affetti da declino cognitivo.
L’ipotesi è che il rame non-ceruloplasminico, muovendosi liberamente nel flusso sanguigno, possa raggiungere il cervello e reagire con i frammenti di beta-amiloide, creando frammenti tossici, cosa già dimostrata dalle sperimentazioni su modelli animali.
Ad ogni modo, gli esperti ritengono che il rame può avere un ruolo abbastanza rilevante nei casi di Alzheimer, almeno per il 60% dei casi.